Il verdetto demolisce la Trattativa, restano in piedi i talk show

Il verdetto demolisce la Trattativa, restano i talk show

La mafia con le stragi ha distrutto vite umane, ma lo Stato non cedette al ricatto

PALERMO – Le motivazioni non si conoscono ancora, ma il verdetto sì. Ed è chiarissimo. L’avvocato di Mario Mori, Basilio Milio, in maniera tranciante dice: “La trattativa è sempre stata una bufala”. Almeno così come è stata pensata e ideata dalla Procura di Palermo prima e della Procura generale poi. Dal processo è uscito lo Stato. Nessuna colpa hanno commesso i politici e i carabinieri.

C’è una sola e terribile certezza nella storia repubblicana: la mafia con le stragi ha distrutto vite umane e colpito il patrimonio culturale del Paese. Il bilancio poteva anche essere più tragico, ma l’attentato allo stadio Olimpico di Roma fallì. Doveva essere l’ennesimo eccidio, per fortuna è andata diversamente.

Il resto, è cioè la stagione dei complotti e dei misteri, è stata spazzata via dalla sentenza. Una cosa sono le ricostruzioni, un’altra i processi. Nel primo caso i sospetti sono sufficienti a gettare pesantissime ombre sulla vita delle persone, mentre per i processi servono le prove. Si possono scrivere libri, sceneggiature cinematografiche, canovacci per approfondimenti televisivi, ma è nel contraddittorio tra le parti che si vincono o si perdono, dipende dai punti di vista, i processi.

Quello che si è chiuso ieri in Corte di assise d’Appello, a Palermo – leggendo il verdetto – ha stabilito che la mafia minacciò lo Stato con le bombe del 1992 a Capaci e in via D’Amelio e del 1993 in via dei Georgofili a Firenze, in via Palestro a Milano e San Giovanni in Laterano a Roma. Gli uomini delle istituzioni – carabinieri e politici – non trasmisero, però, le minacce ai vertici governativi. Nessuno dunque cedette al ricatto. E la trattativa che venne avviata fu dunque legittima. Non aveva come obiettivo di rafforzare il potere ricattatorio dei boss.

In una seconda fase la mafia si rifece sotto, ma la minaccia sarebbe stata solo tentata. Ed è il motivo per cui è arrivato uno sconto di pena di un anno per Leoluca Bagarella, mentre Marcello Dell’Utri è stato assolto con formula piena. L’ex senatore di Forza Italia, già condannato in passato per mafia, era considerato l’intermediario per fare giungere l’avvertimento al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Secondo l’impostazione accusatoria, che non ha retto, la trattativa conobbe due fasi. Nel 1992 gli ufficiali del Ros avrebbero intavolato una sporca discussione con i boss nel tentativo di fermare le bombe, affidandosi all’intermediazione dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Un dialogo che i carabinieri mai hanno negato. Rispetto all’accusa, però, hanno sempre sostenuto che si trattasse di un’operazione di polizia. Il loro obiettivo era solo ed esclusivamente quello di arrestare Totò Riina.

In primo grado erano arrivate pesantissime condanne perché secondo la Corte presieduta da Alfredo Montalto c’era stato dolo specifico nel comportamento dei carabinieri, i quali avevano agevolato l’attività di Cosa Nostra. Anche questa impostazione viene spazzata via con il verdetto visto che la Corte di appello, accogliendo le linee difensive, ritiene che il fatto non costituisce reato. Dunque è lecito pensare che il collegio abbia condiviso l’idea che si trattò di una operazione info-investigativa.

Dopo le stragi Bernardo Provenzano, subentrato a Totò Riina nel frattempo arrestato e forse tradito dallo stesso vecchio amico, avrebbe avviato la seconda fase. Marcello Dell’Utri era considerato la “cinghia di trasmissione della minaccia” che doveva convincere Berlusconi, divenuto premier nel 1994, a cedere al ricatto e avviare una legislazione favorevole ai boss. Nulla di tutto ciò è avvenuto.

In attesa della motivazione e dell’eventuale ricorso che la Procura farà in Cassazione restano dei punti fermi in questo e in altri processi. Alcune vicende sono clamorose, anche se il chiasso di questi anni ha finito per farle cadere nel dimenticatoio. Ad esempio quella dell’ex ministro Nicola Mancino che Giovanni Brusca, l’uomo per cui è arrivata la prescrizione, definì il “terminale della trattativa”.

Un’accusa gravissima a cui nessuno, nemmeno i pm alla fine hanno creduto tanto da chiedere la condanna in primo grado solo per falsa testimonianza. Mancino è stato definitivamente assolto anche da questa residuale ipotesi. Un’assoluzione mai appellata dai pm. Così come è stato definitivamente assolto Calogero Mannino che della trattativa era stato indicato come l’iniziatore. Un verdetto, il suo, che non poteva non pesare sull’intera ricostruzione.

Infine c’è l’Arma dei carabinieri su cui da decenni pesano i macigni di una narrazione che la vede popolata da manigoldi in divisa, traditori di Stato. Su tutti Mario Mori, assolto definitivamente per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, per il mancato arresto di Bernardo Provenzano a Mezzojuso e ora in appello al processo Trattativa, il grande calderone che conteneva le prime due vicende. Per chiudere definitivamente una lunga stagione giudiziaria, o meglio un metodo giudiziario, si deve attendere la Cassazione. Per i processi servono le prove, per tutto il resto bastano i talk show.


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