Gli anni di prigionia di Salvatore Incorpora in Germania - Live Sicilia

Gli anni di prigionia di Salvatore Incorpora in Germania

L'opera più importante dell'artista di Linguaglossa e la nuova introduzione a cura di Elena Aga Rossi e Andrea Giuseppe Cerra.
MEMORIA STORICA
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CATANIA – Salvatore Incorpora (Gioiosa Ionica 1920 – Linguaglossa 2010) è stato un noto pittore e scultore, ma per tutta la vita ha anche avuto un forte interesse per la scrittura. Ha lasciato molti scritti, racconti, in parte riuniti nel piccolo volume Faccia al vento, poesie, come la breve silloge Ossa vive, testi di varia attualità. Ha pubblicato anche diversi saggi e articoli sul patrimonio storico-architettonico e artistico dei comuni della area etnea e in particolare di Linguaglossa, il paese adottivo adagiato ai piedi dell’Etna dove trascorse quasi tutta la sua esistenza. Tale attività si intensificò nel corso degli anni, dopo la sua nomina a ispettore onorario della Soprintendenza di Catania, che gli offrì la possibilità di svolgere una appassionata azione di difesa di un patrimonio storico-artistico spesso lasciato in abbandono, perseguita anche con campagne giornalistiche.

La sua opera letteraria più importante è questo libro Quell’andare (da un diario), che racconta i due lunghi e drammatici anni di prigionia, dal settembre 1943 al giugno 1945. In realtà l’autore si sofferma soltanto in alcuni passi su una data precisa, per cui il testo può essere definito più come un insieme di memorie che come un diario, anche se è probabile che un vero diario sia all’origine del testo.

Scritto a circa trent’anni dalla fine della guerra, fu stampato in una prima edizione nel 1992 a spese dell’autore, non avendo trovato un editore disposto a pubblicarlo. Sulla copertina compare la parola Eunoè volutamente inserita da Incorpora come se fosse il nome di un editore. Il termine è tratto dalla Divina Commedia, opera amata dall’artista. Eunoè è il fiume descritto nel canto XXVIII del Purgatorio e citato di nuovo nel canto XXXIII (in entrambi i casi dal v. 127), le cui acque permettono il recupero della “memoria del bene compiuto” (eu = bene; nous = memoria). In particolare, i versi del canto XXXIII vengono posti da Incorpora in epigrafe al suo volume, là dove Beatrice invita Matelda a far ravvivare in Dante, la cui mente è obnubilata dalla visione di Beatrice stessa, la memoria di ciò che ha visto, per renderne testimonianza.

Particolarmente significativa, dunque, per più di un motivo, la citazione dantesca scelta quale introduzione ad un testo che, al contempo, richiede all’autore di rinnovare il proprio doloroso ricordo di un’esperienza lontana e di raccontare vicende a fine di rendere buona testimonianza per le generazioni future sulla terribile esperienza della guerra, quel secondo conflitto mondiale che fu una guerra totale non solo tra eserciti in armi, ma anche contro singoli individui.

Il libro viene ora riproposto, accresciuto delle chine acquarellate su carta e delle due cartine che descrivono quel lungo percorso, preparate allora e non inserite per ragioni di costo.

La maggioranza dei reduci al ritorno dalla prigionia ha rimosso l’esperienza dell’internamento e le sofferenze subite per rendere possibile il ritorno a una vita normale, o perché convinta che nessuno avrebbe potuto comprendere una vicenda così drammatica; con il passare del tempo l’esigenza di raccontare quel periodo doloroso, ma anche fondativo della propria esistenza in diversi casi è diventato pressante. Per alcuni internati questo è avvenuto soltanto alla fine della propria vita, altri hanno scritto diari e li hanno chiusi nei cassetti senza farlo sapere nemmeno ai propri familiari, che li hanno scoperti dopo la loro morte. Al contrario Incorpora ha voluto condividere la drammatica esperienza della prigionia con la sua famiglia e con i suoi amici fin dal suo ritorno in Italia. Il ricordo della guerra è presente in tutte le sue manifestazioni artistiche, a volte in modo diretto, come nei quadri dipinti su questo tema a partire dagli anni Settanta, in altre è sotteso, ma sempre evidente, come in quelli dedicati a temi sociali. Quando scrive queste memorie è già anziano, ma ancora nel pieno della sua attività di artista, e la loro scrittura è un altro modo per ricomporre il percorso degli anni di prigionia e riviverne le sofferenze, ma anche la lezione di vita.[…] Incorpora parla di sé in terza persona, senza un nome, ma con il numero della sua piastrina 14484, non soltanto per segnalare la perdita della identità, ma anche per evidenziare la sua appartenenza ad una comunità di uomini trattati come numeri, o “pezzi”, secondo il linguaggio dei carcerieri, che condividevano la stessa sorte. Anche loro vinti e affamati, come i contadini, i diseredati, gli emigranti, che negli anni seguenti avrebbe raffigurato nelle sue tele con gli stessi enormi piedi nudi.

(Estratto da Salvatore Incorpora, Quell’andare (da un diario), prefazione di Elena Aga Rossi e Andrea Giuseppe Cerra, Rubbettino 2021, pp. 248, euro 20).


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