Cuffaro e Dell'Utri, Morvillo guida la rivolta delle vittime di mafia

Cuffaro e Dell’Utri, Morvillo guida la rivolta delle vittime di mafia

L'accusa dell'ex magistrato, fratello di Francesca Morvillo. La risposta di Cuffaro. E le lacrime di chi ha sofferto.
LA POLEMICA E IL RICORDO
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Le notissime parole amare, arrabbiate, e dolenti del dottore Alfredo Morvillo hanno un peso diverso da quelle pronunciate, fin qui, nell’ambito di una legittima diatriba politica sulla presenza di due condannati per vicende di mafia all’interno del perimetro del centrodestra che si appresta ad affrontare le elezioni per Palazzo delle Aquile e successivamente per Palazzo d’Orleans. Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri erano già due convitati di pietra che avevano animato, loro malgrado, la campagna elettorale, ora l’intera discussione si sposta su un terreno più ampio e drammatico: la rivolta delle vittime in nome di ciò che resta sacro. Vittima, atrocemente colpita, è l’ex magistrato Morvillo che, nella strage di Capaci, ha perso la sorella Francesca e il cognato, Giovanni Falcone. Vittime siamo, specialmente, noi siciliani, perché quegli eccidi e ogni singola morte rappresentano un invincibile fatto intimo e generale.

Nello specifico, parliamo, per la verità, di profili diversamente convergenti. Cuffaro, condannato per favoreggiamento di Cosa nostra, anche se non può candidarsi (e non vorrebbe) è perfettamente inserito, con la sua Nuova Dc, nelle dinamiche operative della doppia sfida elettorale. Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ha espresso, quando ancora regnava una plumbea incertezza in quel campo, un endorsement per Roberto Lagalla, faticosamente approdato al ruolo di candidato sindaco della coalizione. Ma non è probabilissimo che uno con lo spessore di Dell’Utri faccia una battuta così, in omaggio alla leggerezza. Lo stesso Lagalla sul punto è stato tranciante: “Io i voti li chiedo per me”.

Mafia e politica

La questione si è posta nel suo snodo fondamentale e lacerante, al netto delle inevitabili visioni di parte: qualcuno che sia stato riconosciuto colpevole per un reato che ha a che fare con la parola ‘mafia’, pur nell’osservanza alle limitazioni della legge, può, a buon diritto, rientrare nel gioco della politica, delle sue costruzioni e dei suoi riti, avendo pagato il debito con la giustizia? Potrà dire come la pensa. Potrà esprimere le sue convinzioni da libero e privato cittadino, sicuramente. Ma potrà – in Sicilia, più che altrove, dove la violenza delle cosche non è mai stata un film – occuparsi ancora della cosa pubblica, sia pure in forma indiretta, a lume di coscienza? Totò Cuffaro conferma la sua idea: “Nonostante la sua autorevole considerazione (di Morvillo, ndr), che rispetto ma che con educazione non condivido, credo di avere il diritto costituzionalmente riconosciutomi e forse anche il dovere di vivere la mia vita da libero e coltivare il mio impegno politico e sociale dopo avere pagato i miei errori con grande sofferenza”.

Quelle note frasi del dottore Morvillo, a riguardo, sono apparse, tuttavia, inequivocabili: “A trent’anni dalle stragi la Sicilia è in mano a condannati per mafia. C’è chi attualmente strizza l’occhio a personaggi condannati per mafia. C’è una Palermo che gli va dietro, se li contende e li sostiene. Davanti a questi fatti mi viene in mente un cattivo pensiero: certe morti sono stati inutili. Qui sono accadute cose inaudite. Ma la libidine del potere spinge alcuni a stringere alleanze con chicchessia”. In aggiunta, ieri sera, è stata lanciata dall’Ansa una integrazione del pensiero dell’ex magistrato, in controreplica all’ex presidente della Regione: “Nessuno nega il diritto a Cuffaro di continuare a vivere e a fare tutto ciò che vuole, per carità, ha scontato la pena e nessuno dice che deve tornare in galera. Il problema non è lui, sono gli altri che lo corteggiano e lo inseguono”.

Il dolore delle vittime

Sono osservazioni che arrivano dalla misura di un impegno civile limpido e coraggioso che ha affrontato una smisurata mutilazione. Come accade per Tina Montinaro, vedova di Antonio, il caposcorta del giudice Falcone, che ha detto a LiveSicilia.it: “Parliamo sempre ai giovani, ma non mi pare che stiamo dando un grande esempio. Allora come possiamo pretenderlo? Mi si continua a girare lo stomaco”. Giuseppe Di Lello, esponente di quel pool antimafia, che vide morire i suoi amici, si è espresso così: “In effetti, sembra che non sia accaduto nulla. Nel senso che la magistratura, e questa ne è una prova, può fare opera di contenimento e di ristabilimento della legalità ma non può fare altro. Poi tocca alla società e alla politica che esprime completare l’opera di risanamento. E questo non è accaduto”.

Non stanno scorrendo sul rullo mediatico, con tutto il rispetto, i dispacci della politica che si richiama legittimamente ai valori, ma poi li declina diversamente nella contrapposizione delle reciproche, quando non faziose, dialettiche. Sono le grida di chi c’era, di chi ha combattuto, di chi era con loro, con ‘Giovanni e Paolo’. Quelli che hanno vinto la guerra, perdendo, al tempo stesso, le persone che amavano.


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