Pizzo, imprenditore minacciato: la lettera dell'ergastolano - Live Sicilia

Pizzo, imprenditore minacciato: la lettera dell’ergastolano

Intercettazioni e retroscena dell'inchiesta che ha portato in carcere la famiglia Rapisarda.

BELPASSO (CT) – Non c’è alcuna denuncia a far partire le indagini che portano all’arresto in flagranza di uno dei figli e della moglie dell’ergastolano Giovanni Rapisarda. Sono gli appostamenti dei carabinieri a Piano Tavola che permettono di documentare un’estorsione che ha dei connotati molto singolari. La storia parte da un credito vantato dalla vittima nei confronti di una ditta-cliente i cui titolari sono i familiari del killer di Giuseppe Scaringi.

L’imprenditore belpassese si fa i conti e decide di acquisire il ramo d’azienda. Ma certo non sa che quella scelta gli avrebbe tolto il sonno e la libertà. Nell’ordinanza firmata dalla gip Carla Valenti si delineano i contorni di una vicenda inquietante. Quella ‘cessione’ infatti non sarebbe stata gradita a Giovanni Rapisarda, che dal carcere invia una lettera destinata proprio all’imprenditore, in cui fa ben capire che i soldi “spettavano” a lui e non più ai fratelli.

“Tutti i miei familiari ragionano a modo loro e prendono iniziative sbagliate”, scrive Giovanni Rapisarda in un italiano sgrammaticato. E continua: “Solo per questo motivo pretendo da oggi in poi tassativamente che lei non parli più assolutamente” con loro. “Nota bene che io ero all’oscuro. Tutto i miei familiari potevano vendersi ma mai al mondo l’azienda di 50 anni di sacrifici dove io ci ho passato la mia gioventù”, lo avverte. Ma aggiunge: “Io sono in carcere eppure innocente forse qualcuno della mia famiglia pensava che io ero morto comunque presento da lei l’onestà della chiarezza pur scrivendomi sono stanco delle lamentele della mia famiglia e una volta per sempre li faro stare zitti”. Alla fine l’ordine: “Per il resto dell’azienda devi rivolgerti a mio figlio”.

Tutto comincia nel 2010. Da quel giorno, dopo che Rapisarda jr rassegna il curriculum del padre, l’imprenditore decide di cedere alle richieste per non mettere in pericolo i proprio familiari. E così in dieci anni avrebbe versato tra contanti, assegni, cambiali e un escavatore quasi 700mila euro. Una pausa arriva con il Covid, ma alla fine del 2021 e i primi mesi nel 2022 le ‘visite’ dei fratelli Rapisarda diventano nuovamente più frequenti e questo insospettisce i carabinieri che lo convocano in caserma. E lì, stanco, vuota il sacco.

Racconti che sono concordanti anche con gli sfoghi con un amico intercettati dagli investigatori. Ogni volta che i figli Giuseppe e Valerio e la moglie Santa Carmela Corso vanno a trovare il padre in carcere c’è un contatto con la vittima. E ad un certo punto la ‘richiesta di entrare in società’ per saldare il debito di quasi un milione di euro ancora dovuto. Ci sono anche incontri con tanto di avvocati e commercialisti. La proposta è: o circa cinquemila euro al mese per diversi anni oppure il 20% di quote della ditta. “Ci sediamo mbare – dice Giuseppe alla vittima – non è che ti dico sempre che me li devi dare… per non voglio essere che .. altri dieci anni non posso aspettare… facciamo quattro anni.. cinque anni… ti vengo incontro in tutte le maniere.. come vuoi tu… però ci dobbiamo sedere… io devo avere una certezza … detto.. quello che si è fatto 50 anni di galera.. esce e trova…”.

Le intercettazioni, innumerevoli, sono sempre dello stesso tenore. “Antonio tu devi arrivare a 4 milioni nove, mi porti tutto quello che hai pagato e andiamo… non fare… perché già mio padre è addumatu (acceso, ndr)”. Giuseppe Rapisarda (finito in carcere assieme al fratello e alla madre) da una parte fa l’amico buono e dall’altra però pretende i pagamenti. E questa è la scena che registrano i carabinieri – che hanno installato le telecamere negli uffici della vittima – il giorno della consegna della ‘busta’. “A me cinquemila euro al mese non bastano perché appena parto al colloquio una volta ci vogliono 3000 euro…”, commenta Rasidarda jr prima di prendere i 2000 euro e metterli in tasca. Ed è lì che li trovano i carabinieri. Per mamma e figlio scattano le manette.

I due si difendono in udienza di convalida dicendo che il denaro gli è dovuto “in quanto rata della cessione del ramo d’azienda” e che sono “riscosse anche nell’interesse” dei fratelli di suo marito che sarebbe stato un “socio di fatto” dell’azienda e che quindi avrebbe avuto diritto alla sua parte. Ma per il gip la versione fornita “è inattendibile e contrasta con le emergenze investigative che convergono nel dimostrare l’assoluta estraneità di tutti gli indagati dal rapporto contrattuale con la persona offesa e dunque l’assenza di qualsiasi causa lecita alle loro richieste di denaro”. La giudice non solo ha convalidato gli arresti ma anche disposto la misura in carcere per l’ergastolano Giovanni Rapisarda e per l’altro figlio Valerio. 


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